Per secoli la Campagna Romana e i territori limitrofi sono stati feudi delle grandi famiglie romane, prima definite baronali, e poi principesche. All’unificazione italiana uno dei massimi problemi era che dette terre erano molto mal coltivate e con un regime idrico che contribuiva a rendere malsana l’aria della stessa città di Roma.

A differenza di altre fasi storiche la politica agraria posta in essere dal governo del Regno d’Italia fu abbastanza equilibrato.

Sui vecchi feudi gravavano da tempo immemorabile antichi diritti delle popolazioni locali, inquadrabili negli usi civici, soprattutto di legnatico.

Lo scioglimento di una situazione di coesistenza di proprietà piena con diritti reali minori portò ad attribuire agli abitanti stessi un diritto di riscatto, prima pensato in capo ai comuni, considerati come entità amministrativa, e poi attribuito a nuovi soggetti dalla legge Boselli, per i quali era stato riesumato l’antichissimo termine di Università agraria.

 

 

Anche la successiva legge del 1927 sulla liquidazione degli usi civici sostanzialmente vide mantenute queste forme di proprietà collettive.

Cambiati i tempi ci si è accorti che le vecchie funzioni sociali di assicurare alle popolazioni umili un bisogno primario com’è la legna per riscaldarsi e per cucinare nei focolari, è da tempo cessata, mentre le proprietà collettive di boschi e di altri terreni può svolgere un ruolo fondamentale per la conservazione del territorio ed anche un’importante fonte di reddito per il territorio attraverso una accorta utilizzazione turistica o comunque dello svago.

Per proprietà collettiva delle terre si intendono tutte le forme alternative alla piena proprietà privata di esse.

In particolare comprendono sia i beni demaniali dello stato e degli altri enti pubblici, sia i beni che sono rimasti in qualche formula tradizionale preesistente alla grande fase di privatizzazione che ha interessato l’Europa tra la fine del settecento e il novecento.